Michele D’Andrea …non solo il cerimoniale

Intervista di Paola Pacifici
ROMA – Tanti ed importanti mondi lo circondano
 
Michele, hai lavorato fino a qualche tempo fa come Consigliere della Presidenza della Repubblica, quali i compiti?

Consigliere è la qualifica più elevata della carriera direttiva, da non confondere con i Consiglieri del Presidente della Repubblica, che sono i collaboratori più stretti che il Capo dello Stato porta con sé al Quirinale. Devo dire che sono stato fortunato: sette anni al Cerimoniale, poi la messaggistica presidenziale, l’Ufficio Stampa, ancora la messaggistica e infine l’Ufficio Studi. Una bella palestra di crescita professionale che mi ha insegnato molto.

Nel tuo cv tanti  campi di tuo interesse, come storico, come araldico ed esperto in materia onorifica e cerimoniale. Quale ti appassiona di più?

Sicuramente la storia, perché costituisce comunque la cornice che contiene le altre discipline determinandone l’evoluzione, la diffusione e la percezione nel corso dei secoli. Poi, come spesso succede, ci sono momenti della vita professionale che monopolizzano l’interesse e la ricerca. Ad esempio, fra il 2018 e il 2019 ho lavorato alla creazione dei nuovi distintivi di qualifica della Polizia di Stato: un impegno che ha assorbito gran parte del mio tempo, non solo per le difficoltà legate agli aspetti tecnico-araldici, ma soprattutto per il prestigio dell’istituzione coinvolta e il fatto che si stava scrivendo una nuova pagina nel campo dell’uniformologia dei Corpi armati dello Stato.

Sei un araldista e chi è ?

Cominciamo a dire che l’araldica è un linguaggio. Un linguaggio che si esprime attraverso le figure e che per almeno mille anni fu l’unico strumento capace di esprimere l’identità in una società analfabeta. E non crediate che l’araldica fosse riservato ai ceti più elevati: al contrario, si tratta di un sistema interclassista – lo chiameremmo oggi “democratico” – perché era adottato da tutti, dai contadini ai sovrani, dai comuni alle confraternite, dalla Chiesa alla borghesia. Un sistema geniale che in appena settant’anni, a partire dalla metà del XII secolo, si diffuse in tutta Europa utilizzando il medesimo linguaggio. Una sorta di esperanto ante litteram, insomma. Quanto al sottoscritto, io sono un araldista specializzato nella creazione di nuovi stemmi. Lo trovo un esercizio intrigante perché bisogna raccontare il titolare dello stemma con pochi elementi immediatamente riconoscibili. Sono infatti dell’avviso che più uno stemma è pesante e complicato e  meno riesce a radicarsi nella percezione collettiva. Tendenzialmente, preferisco giocare su combinazioni semplici, in cui gioca un ruolo importante la disposizione dei colori.

Un altro tuo mondo è la “musica risorgimentale”. La musica è lo specchio di una cultura di un paese. Che differenza con quella di oggi con quella risorgimentale?

Nella stagione risorgimentale, in cui l’analfabetismo toccava in media l’80% della popolazione italiana, la musica svolse una straordinaria azione narrativa, celebrativa e propagandistica, accompagnando i fatti, accendendo gli animi, incitando i combattenti. Una produzione funzionale, dunque, che si basava sul modello dell’opera lirica, l’unico genere in vigore in Italia a metà ‘800, quando non esisteva la distinzione fra musica colta e musica popolare. E in quella stagione tutti i canti, compreso l’inno di Novaro-Mameli, erano costruiti sull’impianto lirico, tanto che potrebbero tranquillamente essere inseriti in una qualsiasi opera di Verdi.

Che cosa sono le “conferenze  briose”?

È un modo di raccontare le cose senza annoiare. Io non sono uno specialista in un campo preciso (ad eccezione, forse della corrispondenza istituzionale), ma un’istintiva curiosità mi ha spinto a esplorare diverse materie e a connetterle fra loro. Di qui una narrazione divulgativa che usa un linguaggio leggero, spesso ironico e ricco di curiosità e retroscena. Un genere narrativo che funziona se alla fine qualche spettatore sarà invogliato ad approfondire, nel tempo, argomenti e personaggi offerti all’ascolto in maniera originale e “teatrale” (mi metto pure a cantare, se serve), ma sempre sulla base di una ricerca storico-archivistica rigorosissima. Per il libro sulla Grande Guerra “Palle girate e altre storie”, divenuto poi spettacolo, ho consultato più di 10.000 fotografie dell’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Esercito e mi sono costruito una discreta biblioteca di testi, diari, musiche e giornali del ’15-’18, oltre a numerosi contatti con studiosi, collezionisti ed esperti di quella stagione. Una mia performance al Tedx di Modena del 2017 sull’inno nazionale ha superato le 300.000 visualizzazioni su YouTube. Non male per un argomento a prima vista ben poco attrattivo.

Michele,  sei  anche autore  dello stendardo della Presidenza della Repubblica, dello stemma dell’Arma dei Carabinieri e delle revisioni degli stemma della Marina  e dell’Esercito. Cosa e che messaggio deve trasmettere ai cittadini uno stendardo che rappresenta le nostre istituzioni?

Lo ripeto: una facilità di lettura che aiuti il radicamento e la riconoscibilità fra la gente, unita – ma questa è una mia opinione – a una combinazione semplice e immediatamente riconoscibile. In altre parole, un simbolo non dovrebbe mai assomigliare ad altri. Poi, la forza del messaggio è affidata all’istituzione, che costruisce e alimenta la mitologia dei propri simboli attraverso l’agire quotidiano.

I tuoi seminari sul cerimoniale sono cambiati come è cambiata la vita sociale o alcune regole valgono sempre, cioè l’educazione ed il rispetto che “ non muoiono mai”?

Il cerimoniale non è un insieme di leggi immutabili, ma una serie di consuetudini destinate a essere superate, prima o poi, da nuove consuetudini. E chi si occupa di cerimoniale ha il compito di registrare l’evoluzione del costume, del gusto, della sensibilità individuale e collettiva. Basterebbe pensare a come è cambiato in cinquant’anni l’abbigliamento di società, oggi basato quasi esclusivamente sull’abito scuro. Frac e smoking (con i corrispettivi femminili di abito da gran sera e da sera lunghi) sono ormai statisticamente irrilevanti, così come il tight, indossato di fatto solo in occasione di matrimoni particolari. Tuttavia, alcune norme non riescono a essere scalzate perché hanno mantenuto intatta nel tempo la loro solidità: il rispetto per le persone anziane e per chi è gerarchicamente superiore, il rito del saluto, la postura a tavola, una certa sobrietà nel vestire, il modo di redigere una lettera formale ecc. La padronanza di queste e di altre regole fondamentali segnalano l’appartenenza a un gruppo sociale di riferimento caratterizzato dall’uso di un comune linguaggio comportamentale.

Naturalmente dopo tutte queste attività non poteva mancare un libro. “ Il galateo della corrispondenza. strumenti. stili e pubblica formula di scrittura privata”? Quanto i social hanno cambiato il nostro galateo di comunicazione. E ti piace? Oppure cosa cambieresti?

Ho scritto il Galateo della corrispondenza con Laura Pranzetti Lombardini nell’ormai lontano 2015, nel senso che in sei anni il modo di “scrivere” in senso lato è ulteriormente cambiato con l’affermazione di una comunicazione velocissima che oggi assomiglia più alla parola che alla frase meditata. Ciò velocizza lo scambio di opinioni o d’interlocuzione, ma impoverisce la lingua e veste, come dire, la lettera virtuale o cartacea di un abito un po’ dimesso. Si badi bene, non sono un nostalgico della penna d’oca – anche se scrivere con la stilografica è ancora un piacere inimitabile – ma uso gli strumenti attuali con la stessa cura che metterei se scrivessi su un foglio di carta. Se devo mandare una mail non la butto così alla veloce, senza riguardarla, senza preoccuparmi dei refusi, allitterazioni, cattiva punteggiatura. La mail è una lettera vera e propria che fa uso soltanto di un diverso supporto: cartaceo il primo, virtuale il secondo, ma le regole a mio avviso sono esattamente le stesse.

Tutti questi tuoi mondi ed i giovani. Quanto sono compatibili e soprattutto lo sono?

Araldica, storia, onorificenze, scrittura formale, musica dell’800… Apparentemente dei liceali scapperebbero a gambe levate se proponessimo loro di assistere a un’ora e un quarto di lezione ininterrotta su questi temi. Eppure, anche le carrucole da pozzo, se raccontate bene, possono risultare interessanti. Le dico un’esperienza personale. Nella mia chiacchierata sull’inno, che dura appunto circa un’ora e un quarto, intorno al quarantesimo minuto racconto la morte di Mameli e il modo di combattere nell’800 con filmati e immagini che trasportano i ragazzi una dimensione storica, ma anche umana, che non si aspettano. Ebbene, io dal palco li vedo nitidamente assumere una postura di attenzione, portarsi in avanti fin sul bordo della sedia, aprire la bocca per la sorpresa. Ecco dimostrata l’importanza di una comunicazione “a rete”, che da un tronco principale sia capace di legare altri argomenti, altre suggestioni, altre scoperte. E ti assicuro che i cellulari rimangono in tasca.

Michele, “ da  grande cosa vuoi fare”….come si risponde di solito  “essere piccolo”…..È così anche per te?

Manco per niente. Nella divulgazione e nella ricerca più si va avanti e più si matura, si cresce, ci si migliora. No, l’energia, a mio avviso, è data dalla presenza di due compagne di vita che auguro a tutti d’incontrare: un’insaziabile curiosità e una grande passione. Oltre, nel mio caso, a una moglie che mi sopporta, ovviamente!